La guerra in Ucraina è un tragico fatto militare che l’Unione europea forse s’illudeva – in nome del filone di pensiero post-rivoluzionario inaugurato dal filosofo di Konigsberg, Immanuel Kant, nel suo Per la pace perpetua – di poter ancora evitare e chissà per quanto altro tempo ancora.
Il progetto politico kantiano propone essenzialmente una sorta di “clausola salvatoria”. Non tanto un ordinamento giuridico internazionale volto a mantenere la pace quanto piuttosto una pratica politica repubblicana a livello statuale ed internazionale, basata su tre principi corrispondenti di diritto interno, internazionale e cosmopolitico:
- In ogni stato la costituzione civile deve essere repubblicana;
- Il diritto internazionale deve essere fondato su un federalismo di liberi stati;
- Il diritto cosmopolitico deve stare alle condizioni dell’ospitalità universale.
Ed è certamente in base a questi principi, che l’impegno degli uomini, tutti compresi all’interno di un’unica “Comunità di destino”, che specialmente ci appartiene, dovrebbe essere sempre quello di promuovere il dialogo e il libero confronto e garantire così i mezzi essenziali per una “pace perenne”.
Ma, purtroppo, ripetiamo, le cose non vanno sempre così. Anzi, nient’affatto così. Tanto che la storia è ad uso ripetersi e allora è facile notare come sono passati appena trentuno anni dallo scoppio della guerra nei territori – anch’essi europei – dell’ex Jugoslavia. E quindi, eccoci di nuovo ad assistere – molti tra noi attoniti – a un evento bellico come quello odierno scoppiato nella terra di Ucraina.
Cosa sappiamo realmente degli eventi bellici ucraini? Diciamo, perentoriamente: nulla o quasi! Poco o nulla, eccetto infatti le prese di posizione dei diversi attori internazionali, prese di posizione che sembrano essersi cristallizzate e permanere già dallo scoppio del conflitto e cioè ventitré giorni fa: l’invasione dei Russi, la resistenza degli Ucraini, la desistenza dallo scontro militare di USA e UE unificate dal patto NATO, l’appoggio alla causa ucraina dei Paesi NATO e altri mediante sanzioni economiche alla Russia, il sostegno in generale della Cina alla Russia di Putin, nell’insieme – ma non ognuno per proprio conto – l’incertezza della posizione di schieramento da parte dei Paesi Arabi.
Sembra pertanto di assistere a una sorta di casus belli inverso: non un pretesto per scatenare una guerra, bensì una guerra che diventa essa stessa il tragico pretesto per risolvere un altro tipo di conflitto latente e assai più vasto. E infatti, nonostante i tentativi di porre fine al conflitto militare ucraino, al momento sembra ancora difficile
un’exit strategy che possa mettere d’accordo – attenzione: nella diversa realtà che circonda lo spazio militare della guerra! – tutte le diverse e maggiori parti in causa. E quindi la ragione dello scontro sembra di fatto soggiacere piuttosto a una logica economica, che riguarda sia la politica monetaria che la politica fiscale degli Stati e Comunità internazionali maggiormente interessati dall’esito del conflitto militare.
E cioè, in primis, l’interesse di quelli che Parag Khanna nel 2008 ha chiamato I tre imperi di USA, UE e CINA. I Tre imperi sono ancora oggi in concorrenza e lite tra loro, in un mondo globalizzato, interconnesso, interdipendente. Da un lato sono partner commerciali necessari l’uno all’altro (basta pensare alla questione delle terre rare o del gas) e dall’altro sono concorrenti per la determinazione di un Nuovo Ordine Mondiale. Questa contraddizione, insita nella costruzione e nello sviluppo stesso della più recente fase di globalizzazione, permette di leggere attraverso una diversa lente, che non sia essenzialmente quella militare, anche la questione della guerra ucraina. Eventi funesti, variabili inimmaginabili, quali lo stesso Covid19 e la dipendenza energetica, spina nel fianco di una Europa stritolata in questa contesa, hanno evidenziato che – se la globalizzazione non è interdipendenza (in un rapporto di reciprocità) ma totale dipendenza per interi settori dell’economia – diviene logico pensare a una de-globalizzazione.
Salutata con entusiasmo la libera circolazione di merci e persone in un’ottica d’integrazione tra economie, agevolata dalla tecnologia e sostenuta dalla finanza mondiale – la globalizzazione avrebbe, nelle intenzioni, potuto/dovuto produrre un mondo migliore, garantendo maggior benessere per tutti, espressione di una maggiore giustizia tra le genti e favorito un mondo volto alla pace. Così non è stato e così oggi non è, accertato che la globalizzazione è stata disordinata, dettata per lo più da criteri speculativi e si faccia ancora una volta maggiore attenzione: in realtà, molti sono stati e sono tuttora in corso i conflitti che funestano l’intero pianeta!
La guerra in Ucraina è figlia della somma delle distonie della globalizzazione. La delocalizzazione, espressione e corollario di questa siffatta globalizzazione, è fenomeno che ha trovato la sua matrice non tanto nell’idea di espansione volta a portare industrializzazione e progresso nelle zone arretrate del globo quanto piuttosto nella necessità di produrre sempre più a minor costo scegliendo quelle zone del pianeta dove la manodopera presentava e presenta costi irrisori o minori. Da ciò è derivata anche la fortuna della Cina che – crescendo e prosperando grazie a questo innesco occidentale – ha finito per diventare una potenza leader mondiale, in qualche modo riscattando anche se stessa agli occhi del mondo.
Così che, in sintesi, ha osservato Alessandro Campi sulle colonne di Il Mattino che ci ritroviamo “più globalizzati e meno cosmopoliti”. Viviamo un momento di chiusura, di
necessario protezionismo innescato anche dalla pandemia a sua volta percepita fatale a causa della globalizzazione che ha agevolato il diffondersi dell’infezione non risparmiando alcun angolo del pianeta e mostrando la fragilità dell’intero sistema e, come più volte da noi precisato ed evidenziato, della nostra intera Comunità di destino.
Nell’ultimo trentennio, dopo la caduta del Muro di Berlino, le tre diverse potenze – USA, UE e Cina – hanno continuato a ispirarsi e a muoversi secondo una logica imperialista: da un lato nel contrasto con gli Stati a guida islamica e dall’altro, corrispondentemente, nell’allargamento militare della NATO a est, di ampliamento politico-commerciale dell’UE ancora a est, in parte favorevole e in parte contraria all’avanzamento commerciale della Cina oltre che a ovest anche a est, oltre che a nord e a sud del globo.
Rispetto alla situazione economico-finanziaria delle tre grandi aree imperiali d’inizio millennio, in particolare nell’ultimo decennio lo scacchiere internazionale ha registrato un consistente aumento del debito pubblico sia degli USA che dell’UE. A differenza, senz’altro, di quanto accaduto sia per la Cina che per la Russia – che, non bisogna dimenticare, fornisce all’UE, ogni anno, circa il 40% dell’intero fabbisogno di risorse energetiche necessarie. Per gli USA, la questione energetica è stata invece risolta definitivamente riguardo al fabbisogno interno, in quanto con le nuove tecniche di shale gas gli USA sono riusciti praticamente ad azzerare o quasi la loro dipendenza energetica da altri Stati. Quanto invece alla situazione del debito pubblico, gli USA si trovano in un’enorme difficoltà, tanto che Biden è già intervenuto a ottobre dello scorso anno per evitare lo shutdown e scongiurare il possibile default dell’intera Comunità nazionale. La situazione è grave, anche perché una parte consistente del debito stesso è nelle mani della Cina, la cui moneta – lo yuan – negli ultimi dieci anni ha affrontato e in prospettiva è destinata ad affrontare con il dollaro statunitense un rapporto non più stabile, come in precedenza, bensì conflittuale. E’ di tre giorni fa la notizia che l’Arabia Saudita starebbe trattando con la Cina il pagamento della fornitura di petrolio in yuan. In estrema sintesi, c’è il rischio concreto che possa cessare il regime del cosiddetto “signoraggio” del dollaro USA; fatto che aggraverebbe, forse anche in via definitiva, la crisi del debito pubblico statunitense, e di conseguenza l’esito possibile del default finanziario.
Quanto all’Unione Europea, il Presidente della BCE, Christine Lagarde, per quanto evidenziato dalla rete televisiva italiana di Sky, ha espresso due diversi giudizi riguardo alle conseguenze economiche-finanziarie derivanti dall’insorgenza e dal perdurare del conflitto militare in Ucraina:
– (La guerra) porta l’economia europea in un territorio sconosciuto. Ha rivelato la nostra vulnerabilità che deriva dalla dipendenza economica da attori ostili;
– (Siamo, in quanto BCE) pronti ad adeguare la dimensione e/o la durata dei nostri acquisti. Così manteniamo aperta l’opzione di prendere qualsiasi misura necessaria se le conseguenze economiche della guerra dovessero aggravare e soffocare la ripresa.
L’evento della guerra in Ucraina naturalmente non esime Putin dalle sue enormi responsabilità e per quanto possano e debbano essere comprese anche le sue ragioni ciò non toglie che è in atto una guerra nel cuore d’Europa combattuta nel più vecchio stile. Uno scenario che molti pensavano non fosse più possibile ripetersi, e invece alcuni analisti e osservatori, come il Professor Giancarlo Elia Valori, lo avevano rimarcato in tempi che potevano essere utili per impedire da parte della comunità internazionale l’escalation del conflitto.
Da due giorni, nel dialogo per la pace è entrata in gioco la Cina e la sua arte diplomatica, che si richiama a principi legati al riconoscimento di reciproche garanzie per una reciproca sicurezza. La Cina è Paese dalla cultura plurimillenaria, che fonda le proprie radici sul principio di “Armonia”, ha interesse a espandersi, a intensificare i propri commerci, ha interesse a un mondo pacifico nel quale poter prosperare. E’ riuscita a raggiungere livelli di crescita economica fino a poco tempo fa impensabili, ed è così assurta a temuto “competitor” dagli Usa, a differenza di quanto accade rispetto al sentimento non unilaterale dell’Occidente Europeo, orientato sia nell’uno che nell’altro verso.
Parte perciò dagli Usa, che pur hanno creduto nella globalizzazione, la ricerca di un nuovo Ordine mondiale – come s’intitola il libro del “vecchio e saggio” Henry Kissinger del 2014, peraltro coevo all’occupazione russa della terra di Crimea – che potrebbe svilupparsi secondo un’idea propria americana d’isolazionismo o piuttosto un’idea diversa di globalizzazione in qualche modo rivista e corretta, tendente a una forma, per così dire, di anti-globalizzazione al fine prioritario di allentare le mire espansionistiche del dragone cinese.
L’Europa è a un bivio. Sarebbe auspicabile, tenuto conto che l’Europa è alleata ma non è l’America, che essa potesse presentarsi nello scacchiere internazionale con scelte autonome, accreditandosi come un interlocutore che persegua proprie strategie. Non è detto che le guerre degli altri siano e diventino anche le nostre guerre. Le conseguenze degli squilibri in atto si stanno riversando in modo pesante proprio sull’Europa, che si è schierata in quello che appare oggi come un braccio di ferro Usa-Russia e che potrebbe aprire a nuovi scenari di “guerra fredda”.
Un’Europa già alle prese con una ripresa post pandemica, che stenta, e di cui il caro prezzi, il rincaro di tutte le materie prime, la difficoltà di approvvigionamento energetico sono fattori ancora più destabilizzanti per l’equilibrio di un’area, a ventisette Paesi, in difficoltà da almeno quindici anni e a seguito della crisi dei mutui subprime statunitensi.
In definitiva, un’Europa che si dica capace di fare sacrifici per difendere i propri principi ma che, nel contempo, si dimostri altrettanto capace di correggere e imparare dai propri errori, in modo da creare per il presente e il futuro delle nostre generazioni “nuove condizioni” per accordi di pace duraturi tra Imperi che sono necessariamente destinati a dialogare tra loro.
Paola Bergamo
Angelo Giubileo